La pianta phalaenopsis è stata descritta nel 1825 dal botanico olandese C.L. Blume, che stava lavorando presso il Giardino botanico reale di Buitenzorg (ora chiamato Bogor) sull'isola di Java.
La leggenda vuole che durante uno dei suoi viaggi abbia visto un assembramento di farfalle fluttuare quasi immobile di fianco a un albero.
Queste farfalle si rivelarono essere orchidee, che in seguito chiamò phalaenopsis amabilis, amabilis significa delizioso. 
Il nome phalaenopsis significa come una farfalla notturna e deriva dalle parole greche pahalaina (farfalla notturna) e “opsis (simile a). Da qui il nome inglese di “moth orchid (orchidea farfalla notturna).
In Indonesia la phalaenopsis amabilis viene chiamata anche “anggrek boelan, che significa “orchidea della luna”.
Scoperte nell'Isola di Java sono originarie delle Indie, dell'Indonesia, della Cina e dell'Australia, ma poi sono state diffuse in tutto il mondo perché rispetto ad altre orchidee, la phalaenopsis è una delle più semplici da coltivare, anche per i neofiti del genere.
Si tratta di piante epifite, ovvero in natura crescono sulla corteccia degli alberi, dalle grandi e carnose foglie e dai fiori multicolori, talvolta di dimensioni notevoli (anche più di 10 centimetri di diametro), spesso molto duraturi sia sulla pianta che da recisi.
Le phalaenopsis sono piante a sviluppo monopodiale, ossia presentano un solo piede vegetativo. Non sono provviste di pseudo bulbi, ma possiedono un semplice rizoma dal quale si originano grandi foglie opposte, persistenti, ovali, simmetriche rispetto alla linea longitudinale.
I fiori variamente colorati, hanno aspetti molto differenti fra specie e specie, ma possono vantare spesso grandi dimensioni e sempre una notevole bellezza esotica.

Il phlox, detto anche flox, è una pianta erbacea, con fiori di diversi colori. E’ annuale o perenne a seconda della specie.
Questa pianta appartiene al genere Phlox, che comprende circa 60 specie, ed alla famiglia delle Polemoniaceae. Il nome phlox deriva dal latino e significa fiamma, in riferimento alla forma ed al colore dei fiori della pianta.
E’ originaria dell’America del nord e dell’Asia.
Gli americani la chiamano “phlox perenne”, per distinguerla dall’annuale texana
 phlox drummondii, oppure anche “phlox estiva” o “phlox autunnale”. Fra New York, la Georgia e l’Illinois, phlox paniculata ha scelto di vivere su territori alluvionali di pianura molto aperti
E’ molto apprezzata per la sua abbondante fioritura ed è utilizzata per creare bordure ed aiuole, può essere posta in giardini rocciosi o su muretti oppure può essere coltivata in vaso per decorare balconi e terrazze.
Il
 phlox può avere portamento eretto o strisciante. Le dimensioni variano a seconda della specie, ci sono alcune piante che non superano i 10 centimetri di altezza ed altre che arrivano oltre il metro. Le foglie sono piccole, verde scuro ed i fiori sono molto numerosi e variamente colorati. I fiori sono tubulosi, hanno un diametro di 2-3 centimetri, sono riuniti in pannocchie, di norma sono rosa scuro o malva, ma non è raro che virino al bianco, al salmone ed anche al rosso vivo od al violetto. Una manna per gli ibridatori europei, che iniziarono a coltivarla in più varietà fin dal 1839, tanto che oggi il mercato ne offre non meno di 180, una più ammiccante dell’altra.
 
Nell’ epoca medievale, durante le feste ed i ricevimenti, i cavalieri erano soliti ornare i propri vestiti con fiori di phlox, fiori la cui bellezza e profumo risultavano essere particolarmente apprezzati dalle dame.
I cantastorie dell'epoca parlavano dell'usanza dei cavalieri di lasciare il fiore alla donna con cui avevano ballato e festeggiato per tutta la serata. Per questo motivo, la pianta è l'emblema della complicità e dell’intesa.

La particolarità di questa pianta è che i fiori non marciscono ma cadono intatti sul suolo.

Nome scientifico “bellis perennis” della famiglia delle Compositae.
Secondo la mitologia romana, la ninfa Belide fu trasformata nel piccolo fiore Bellis, per soddisfare la sua richiesta agli dei di aiutarla a sfuggire alle attenzioni non desiderate di Vertumno, dio dei boschi e delle stagioni, che l’aveva adocchiata ballare con le compagne sul ciglio della foresta.
Più facilmente, secondo i filologi moderni, il suo nome deriva dall'aggettivo “bellus” (bello, grazioso) con riferimento alla delicata freschezza di questo fiorellino. Mentre il nome specifico “perennis” fa riferimento al ciclo biologico di questa specie (perenne).

Gli inglesi le chiamano “english daisies”, o “margherite inglesi”.
Le pratoline (o margheritine o primavere), fanno parte di quel bel mondo che fu, che per anni avevamo infilato nel dimenticatoio e del quale invece siamo oggi sempre più assetati. In fondo l’impiego di alcuni fiorellini di campo, magari sotto forma di varietà coltivate, è qualche volta sufficiente per soddisfare anche i palati più raffinati.
Nasce spontanea in tutti i prati e pascoli del Continente, fatta eccezione per le isole Baleari e le Svalbard. Diffusissima in tutte le regioni italiane, questa erbacea perenne, solitamente non più alta di 15 centimetri, possiede un solo capolino, con bottone centrale giallo e petali (in realtà sono fiori ligulati) bianchi, ma spesso soffusi di rosa-rosso.
La fioritura dura da marzo all'autunno ma si può far fiorire la pratolina anche in inverno. Alcune varietà presentano capolini grandi semplici. Vengono coltivate oggi varietà a fiore doppio di colore bianco, rosa, cremisi, rosso, carminio e altre tonalità di rosso.

Anche in natura, gli ibridi e le varietà non si contano, tanto da facilitare enormemente il lavoro di chi invece si dedica alla costituzione di cultivar ornamentali. Con le umili ma graziosissime pratoline, è possibile decorare senza tanti fronzoli alcune aree del nostro giardino, utilizzando piante assolutamente rustiche e senza troppe esigenze.

Il nome primula deriva dal latino “primis”, ovvero “primo”, perché la primula è uno dei primi fiori che nascono dopo le candide e gelide nevicate, quando il manto bianco scompare e nei prati comincia a crescere l’erba novella. Il suo nome significa quindi “primo fiore”, oppure “colei che sboccia per prima”, ed anche “fior di primavera”.
Le
 leggende narrano che la primula sia un potere nel mondo delle fate, la quale consente di vedere questo strabiliante universo. Le leggiadre fatine, infatti, sono molto affezionate ai fiori, prendendosene cura, sorvegliando il loro ciclo vitale.
Secondo varie storie, ovunque ci siano dei prati di primule, ci saranno sicuramente anche delle
fatine e per poterle vedere basta mangiare questo potente fiore. Per questo motivo le primule vengono considerate come una magia, poiché consentono di rendere l'invisibile visibile. L'invisibile può essere colto toccando la roccia di fata, con un numero appropriato di primule, dove si aprirà la porta verso il loro mondo incantato. Chi utilizza invece un numero errato e ingiusto di primule, rischia di incrociare la rovina. A questo punto l'uomo si pone la domanda chiedendosi quante primule bastano per conoscere il mondo fatato, ma all'essere umano non è consentito sapere!
Oltre alla leggenda legata al mondo delle fate, noi umani conosciamo altre due storie riguardo alle primule.
La
 prima interessa la figura di San Pietro, un uomo molto religioso e pio, al quale il Signore affidò le chiavi del Regno dei Cieli. La storia narra che Gesù chiese al santo un nuovo mazzo di chiavi del Paradiso; quest'ultimo lanciò le sue chiavi dal cielo e cadde in una zona settentrionale d'Europa. Lì apparve la prima specie di primula e, data la sua forma, venne chiamata mazzo di chiavi.
La
 seconda storia è legata agli elfi, in cui si racconta che le primule abbiamo un ruolo ideologico tra il mondo terrestre ed il mondo della luce. Si narra che proprio su un prato di primule gialle, sbocciò l'amore tra il re degli elfi ed una donzella terrestre, moglie di un nobile re, la quale soleva danzare tra i prati in una giornata soleggiante. Da questo impossibile amore, si racconta che sia nata la guerra tra gli uomini e gli elfi.

Il nome del fiore protea fu creato nel 1735 da Linneo, ispirato al dio greco Proteo.
Nella leggenda greca, Proteo, figlio di Poseidone dio del mare, era signore dei mari, veggente, multiforme e capace di trasformarsi in ogni cosa. La protea fu chiamata così proprio perché, da quando sboccia a quando fiorisce, si svela, diventando sempre più lontana dal suo aspetto primordiale. Cambiamento e trasformazione è l'associazione che si accosta alla protea secondo l'antico mito greco.
Il genere protea comprende diverse specie di piante ornamentali di facile coltivazione in vaso ed in piena terra.
Le piante, circa 100 specie diverse della famiglia delle Proteaceae, tutte provenienti dalla aeree tropicali africane, si diversificano per forma e dimensioni dei fiori,
anche se le più diffuse in Italia sono la cynaroides e la neriifolia.
Hanno la capacità di crescere e sopravvivere in habitat molto vari, dalle dune costiere alle catene montuose.
È interessante notare che le protee sono state descritte come “fiori di fuoco”, perché si riproducono quando gli incendi liberano il terreno dal fitto strato di foglie che soffocano i loro semi.

Producono un ampio arbusto, alto fino a 60-80 centimetri, con foglie allungate, che si sviluppano su lunghi fusti rossastri, non molto ramificati. Le foglie sono di un bel colore verde scuro, leggermente coriacee e cerose.
A partire dalla primavera inoltrata fino alla fine dell'estate tra i rami si ergono fusti non ramificati, al cui apice sbocciano grandi infiorescenze, costituite da piccoli fiorellini. Il colore e la dimensione dei fiori dipende dalla specie ed anche dalla varietà, con infiorescenze che raggiungono 25-30 centimetri di diametro, con brattee candide, rosate o rosse.

I grandi fiori della protea molto ricordano i carciofi o i cardi, con un aspetto spinoso; ogni pianta produce molti fiori. Queste particolari infiorescenze possono sopravvivere per settimane una volta recise, ed hanno un aspetto molto gradevole anche dopo essere disseccate, per questo motivo le protee vengono molto utilizzate e prodotte proprio come fiore reciso.
Nel 1896, il sud Africa ha dichiarato la protea il fiore nazionale, viene stampata su francobolli e impressa su monete.

Il ranunculus asiaticus con tutta probabilità giunse in Europa all’epoca delle Crociate (quindi dal XII al XIII secolo).
In particolare si sa che fu Luigi IX, in ritorno dalla Terra Santa, ad introdurli in Francia: all’epoca però non furono apprezzati in maniera particolare, forse per scarsa conoscenza del metodo colturale.
Si dovette aspettare fino alla metà del 1600 perché qualcuno cominciasse ad apprezzarli e a diffonderli. In particolare l’imperatore ottomano Maometto IV fu un grande appassionato di floricoltura. Diede vita ad una vasta raccolta delle varietà più belle (che fece ricercare in tutta l’Anatolia, in Persia, sull’isola di Rodi e di Creta) che, clandestinamente, giunsero anche in Europa, nel sud della Francia.
Il ranuncolo deve il suo nome proprio alla comunissima rana, questo per la predilezione che il ranuncolo ha nei riguardi dei luoghi paludosi ed umidi, proprio come l'animale.
Esistono diverse varietà di colori, i ranuncoli sono fiori molto gradevoli e colorati, che somigliano a roselline gialle, rosse, rosa, salmone, oro, bianche o arancioni. Sono fiori in grado di trasmettere allegria e colore, di ornare e decorare determinati punti del giardino o del terrazzo con bellezza ed originalità.
Secondo le leggende, un mitologico coyote stava alzando lo sguardo in alto, quando un'aquila piombò addosso e li catturò. Il racconto prosegue dicendo che il coyote utilizzò i ranuncoli come suoi occhi. Uno dei nomi del fiore è “occhi di coyote”, proprio per questo motivo.
Si dice che il fiore esprima il messaggio, Sono abbagliato dal tuo fascino.
Le parti verdi del ranuncolo contengono liquidi molto velenosi. L'uomo deve prestare particolare attenzione al succo che appunto esce da questa pianta perché il contatto con gli occhi può provocare seri problemi alla pupilla ed il contatto con la pelle causa spesso dermatiti. Il pericolo però svanisce se le parti vengono tagliate e seccate e non presenta in ogni caso alcun problema al tatto. Questa pianta costituisce invece un pericolo maggiore per i gatti.

“La rosa è il profumo degli dei la gioia degli uomini orna le grazie dell'amore che sboccia è il fiore prediletto di Venere(Anacreonte, Ode 51).
Ci sono molti momenti storici in cui è menzionata la regina dei fiori, ma una delle storie più importanti è conosciuta con il nome: “La guerra delle rose”. A metà del XV secolo, due diverse famiglie britanniche, i cui emblemi erano la rosa bianca di York e la rosa rossa di Lancaster. Oggi noi siamo certi che si trattava della rosa alba maxima e della rosa gallica officinalis. 
Già dal XII secolo, si narra che il secondo nome alla rosa gallica versicolor l’aveva dato l’amante di Enrico II, chiamata fair rosamund, e poi, rosa mundi. La mitologia e tutta la storia sono intrise di simboli o emblemi araldici che contengono questo fiore.
Si narra che le rose siano state create dalla spuma del mare, che circondavano Afrodite, dea dell'amore, mentre usciva dal mare. 
Un'altra leggenda racconta dell’amante Adone di Afrodite che, quando fu ferito in battaglia, dalle sue lacrime, che si erano mescolate al suo sangue, fossero cresciuti dei fiori molto profumati, rose rosso sangue.
Anche presso gli antichi romani si raccontavano molte storie sulle rose. Una delle più belle racconta che Flora, dea della primavera e dei fiori, aveva domandato agli altri dei di aiutarla a trasformare la sua amica defunta, nella regina dei fiori. Un dio le aveva ridato la vita, un'altro l’aveva immersa nel nettare, un’altro le aveva dato il profumo, un’altro il frutto, e la dea Flora le aveva donato i petali. Il risultato era stato, naturalmente, la rosa.  
Gli antichi romani usavano le rose come medicina, “il profumo di rosa potrebbe diventare la medicina.
Altre leggende narrano che i pavimenti dei piani del palazzo, dell’ultima regina della dinastia tolemaica, Cleopatra erano coperti di petali di rosa, e che il saggio Confucio nella sua biblioteca disponeva di 600 libri, su come coltivare le rose.

La rosa canina, antenata delle rose coltivate, è una pianta antichissima, nata più di quaranta milioni di anni fa.
Datano a quel tempo infatti i reperti fossili di questo fiore ritrovati nel Colorado e nell´Oregon.
Un fiore quindi molto resistente, che ha passato indenne secoli e secoli, differenziandosi in varie specie.
Una delle leggende più interessanti, legate a questa pianta, vede come protagonista il dio romano Bacco. Essa racconta che il dio del vino si innamorò di una ninfa e che come era solito fare tentò di conquistarla. Spaventata ella fuggì lontano correndo fino a che non inciampò in un cespuglio che sembrava non volerla lasciare andare. Nonostante i suoi tentativi di continuare la fuga essa venne raggiunta. I due giacquero insieme ed una volta conclusosi l’atto tra i due, Bacco ringraziò il cespuglio trasformandolo in una rosa, con i fiori dal colore rosato delicato, lo stesso delle guance della ninfa.
Fu poi Plinio il Vecchio a diffondere la credenza che il decotto delle sue radici fosse un utile rimedio contro la rabbia trasmessa dai morsi dei cani.
Nel 1700 Linné, attribuì a questa rosa l’appellativo “canina”.
Fin dall’antichità le popolazioni le hanno sempre attribuito un doppio valore. Sono infatti state sempre considerati i suoi fiori per la loro bellezza e per il profumo dei boccioli delle sue rose, ma al contempo la pianta stessa veniva vista con un certo timore per via del suo tronco e dei suoi rami pieni di spine molto appuntite e piccole.
Una simbologia di bellezza e dolore, che all’interno del linguaggio dei fiori si traduce da una parte in delicatezza e piacere, ma dall’altra in sofferenza e dolore fisico. Un quadro che si adatta particolarmente ad un amore tormentato.
Un sentimento di quelli che stritolano il cuore e che se da una parte ti scaldano l’animo, dall’altro spesso sono così difficili da gestire che lo star male è quasi una caratteristica insita.
Questa pianta, attualmente, fa parte dei fiori di Bach e ne viene fatto ampio uso nella medicina naturale attraverso la fitoterapia.

Il sambuco è un arbusto molto comune nei boschi di pianura e di media montagna. Il nome greco del sambuco “actè”, che significava nutrimento di Demetra, evidentemente per l'utilizzo che veniva fatto delle sue bacche (nere per il sambucus nigra, rosse per il sambucus racemosa).
Il termine latino “sabucus”, da cui l'italiano sambuco, designa, oltre alla pianta, uno strumento di legno a corde, “sambukè”, specie di arpa orizzontale di forma triangolare in uso presso greci e romani, presunta erede di uno strumento persiano chiamato “sabka” di forma simile. Il nome popolare è anche “pianta dell’inchiostro” in quanto le bacche violacee hanno notevoli qualità tintorie.
La parola sambuco indicava anche un piccolo flauto, ancora oggi facilmente realizzabile a partire da un ramoscello di questa pianta privato del midollo interno. In passato se ne fabbricavano cerbottane, flauti e zùfoli.
Il flauto magico delle leggende germaniche era fatto con il sambuco.
L’albero di sambuco veniva detto “holunder” ovvero “l’albero di Holda”. 
Holda era il nome di una fata del folklore germanico medievale, raffigurata come una donna giovane e dai lunghi capelli biondi, era considerata una figura benigna ed abitava nei sambuchi che si trovavano nei pressi  dei corsi d’acqua.
I contadini tedeschi rispettavano profondamente il sambuco, tanto da salutarlo nel passaggio togliendosi il cappello. L’arbusto non veniva quasi mai tagliato  se non per sfruttare le sue qualità curative, qualità assolutamente confermate dalla farmacologia moderna.  
Si narra che non solo Holda abitasse il sambuco ma anche i coboldi e gli elfi.  Dal ramo di un sambuco era possibile ricavare il flauto magico, il cui suono proteggeva dai sortilegi. Per farlo era necessario tagliare un ramo di sambuco in un luogo circondato dal silenzio e soprattutto ove non fosse possibile udire il canto del gallo che avrebbe reso il suono dello strumento roco.
In Bretagna, Danimarca, Russia ed altri paesi, questa pianta veniva utilizzata per proteggere le case dai malefici.
D'altra parte il sambuco poteva anche attirare i poteri maligni, per esempio se veniva bruciato dall'uomo.

L'etimologia del nome solidago è controversa, ma in ogni caso fa riferimento alle proprietà medicamentose di varie specie di questo genere (conosciuta infatti fin dalle antichità per le sue proprietà curative) e potrebbe derivare dal latino solido” il cui significato è consolidare, rinforzare e quindi anche guarire del tutto.
Il nome specifico “virgaurea”, che significa ramoscello d'oro, si riferisce all'altro nome spesso usato per questa specie “verga d'oro”, derivato dalla sua vistosa inflorescenza.
Il binomio scientifico attualmente accettato (solidago virgaurea) è stato proposto da Carl von Linné, nel 1753.
Il solidago appartiene alla famiglia delle Asteracee ed è originario del nord America, dell’Asia e dell’Europa.
E’ utilizzato per le bordure, nel giardino roccioso e, da qualche anno, anche come fiore reciso grazie ai programmi di miglioramento genetico che hanno consentito la costituzione di nuove varietà molto produttive con ottimo habitus vegetativo facili da programmare e con fiori dalle eccellenti qualità di conservazione.

E’ una pianta erbacea perenne, rustica, che può arrivare fino ad una altezza di 2 metri, ha fioriture a capolino, giallo vivo, riunite in pannocchie e foglie lanceolate con una leggera dentatura. E' una pianta di facile coltivazione.
Hanno l'esigenza di essere spiantate e ripiantate, quindi rinnovate, perché esauriscono molto velocemente le risorse contenute nel terreno.
I fiori contengono abbondanza di nettare (si tratta di  considerazioni  di massima, perché la quantità di nettare dipende da tantissimi fattori diversi) . 
Il miele di solidago è prodotto sopratutto in estate nelle zone adiacenti i fiumi della pianura padana.
Si tratta di un miele delicato e non persistente. E’ un miele che cristallizza in modo compatto con grani medi, mangiatelo con i formaggi freschi è la morte sua.

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